VH QUALITÀ MADE IN ITALY IN MONZA
UN ESPERIENZA CENTENARIA NELL’ARTE DEL TAILOR MADE DEI CAPPELLI
Mi chiamo Fabrizio Vimercati, sono nato a Monza e sono un cappellaio. L’ultimo. Lavoro nell’azienda di famiglia, fondata nell’autunno del 1953 da mio nonno Gabriele e suo fratello Giulio, rispettivamente classe 1910 e 1915. Produciamo artigianalmente, usando le tecniche ed i metodi di un tempo, preziosi copricapo in feltro, prestando cura ed attenzione alle nuove esigenze della moda e del mercato.
FASCINO E STILE MADE IN ITALY
Il cappello vanta una lunga storia che lo vede trasformarsi attraverso i secoli da prodotto di consumo di massa ad accessorio glamour. Superando i confini del tempo, questo oggetto unisce efficacemente la sua originaria funzione pratica ad una moderna esigenza di espressione della personalità.
Il sogno e l’obiettivo della nostra azienda è riuscire a tramandare quest’arte manifatturiera senza tempo, che è parte importante della storia di Monza, “Città del Cappello”, e di tante famiglie come la nostra, affinché il cappello possa tornare ad essere simbolo di fascino ed eleganza oltre che manifestazione di carattere e personalità.
IL CAPPELLO, UN INDUMENTO ANTICO
ALCUNI CENNI STORICI E CURIOSITÀ
La storia del cappello non è soltanto la storia di un oggetto-culto, un accessorio in cui arte, cultura e creatività si intrecciano, ma è altresì la storia dell’evoluzione del costume sociale, della vita degli uomini e delle donne che lo hanno realizzato artigianalmente, maestri di un’arte senza tempo, custodi di un’abilità tecnica creatrice di oggetti unici.
La parola cappello deriva dal latino “cappellus”, diminutivo di cappa, cioè piccola cappa, atta a riparare la testa. Le origini di questo indumento sono antiche. Le prime tracce risalgono al III millennio a.C. Si dice infatti che, insieme alla treccia di paglia, il feltro sia stato uno dei primi tessuti prodotti dall’uomo.
Anche gli antichi Greci ed i Romani usavano il feltro per confezionare abiti, copricapi e mantelli. Il trionfo del cappello in feltro avviene però nel XV secolo. Pare infatti che il primo ad usare un cappello in feltro di fine pelle di castoro, sia stato Carlo VIII nel 1400. All’epoca il cappello copriva l’intero capo ed era caratterizzato da una visiera.
Ma è dal Cinquecento che, con l’afflusso delle ricchezze e la necessità di apparire in pubblico con un aspetto decoroso, inizia a curarsi l’abbigliamento come segno di distinzione. Il cappello viene indossato come segno nobiliare e gentilizio. Prezioso di per sé, essendo realizzato in pelo di castoro, lontra o lepre, si arricchisce di penne, pennacchi e piume. Nella prima metà del secolo, sotto il regno di Francesco I, il sovrano e la sua corte iniziano ad influenzare fortemente anche la moda. Mentre in Francia si indossano feltri a tesa larga, ornati di piume e fibbie, in Germania si diffondono feltri di lana a tesa stretta e rialzata. Laddove in Inghilterra, restia ad accogliere le novità provenienti dai paesi stranieri, si indossano berrettoni e classici feltri a tesa alta e media, in Spagna si preferiscono forme coniche a cupola alta. In Italia, i principi del Rinascimento impreziosiscono i loro cappelli con nastri e trine. Importante testimonianza dello sfarzoso abbigliamento rinascimentale italiano ci è stata donata dalla ritrattistica del mecenatismo di corte.
Il cappello, usato dalla nobiltà come segno di distinzione e riconoscimento sociale, inizia a diffondersi anche tra i ceti meno abbienti, prima in forma rotonda, con l’orlo girato verso il basso – il cosiddetto cappello a ruota – poi in altre forme. La fine del Cinquecento è segnata da guerre e carestie. Le corporazioni artigiane attraversano momenti bui. Il cappello si rimpicciolisce ed assume una forma a calottina sulla testa. Da emblema signorile e simbolo d’eccellenza, il cappello diventa elemento immancabile nel guardaroba maschile e militare. Il cambiamento della moda maschile vede l’abbandono delle imbottiture. I borghesi sostituiscono alle piume nastri di pelle di grograin con una fibbia al centro.
In Francia, il cappello continua tuttavia ad essere indumento di grande diffusione. Il sovrano lancia la moda del cappello a tre punte, il tricorno.
I cappelli divengono simbolo di civetteria e di vanto. Sono molto grandi, a falda larghissima bordata di pelliccia o marabu e vengono indossati sopra la parrucca.
I gentiluomini, obbligati ad indossarli a corte, li portavano sottobraccio. Per coloro che non potevano permettersi di acquistarne uno, potevano noleggiarlo all’ingresso del palazzo di Versailles. L’unico che poteva tenere in testa il cappello a corte, anche a tavola, era il Re. Con re Luigi XIV, la Francia raggiunge i vertici della cappelleria. Dopo la Rivoluzione Francese, la vittoria della borghesia e la progressiva scomparsa dell’aristocrazia cambiano radicalmente la moda maschile, che diventa più pratica e sobria. I valori borghesi, legati al lavoro, al guadagno, alla serietà, si manifestano con vestiti scuri e formali. Anche i cappelli subiscono lo stesso processo di standardizzazione. Il vero e nuovo segno dell’eleganza maschile è rappresentato dal cilindro. Alto, di forma cilindrica appunto, detto anche a tuba, a canna, a torre o a staio, trova la sua consacrazione in Inghilterra. È stato infatti il cappellaio londinese Herrington a confezionane, nel 1805, il primo cilindro a tesa non molto larga e con una leggera svasatura dal basso verso l’alto. Durante il Romanticismo, invece, il cilindro, trasformatosi in un tubo della stessa larghezza senza svasatura, prenderà invece il soprannome di “zero”. Chi indossa il cilindro lo fa però non senza poca difficoltà. È ingombrante da riporre, specie quanto indossato a cena o a teatro. È così che, nel 1812, a Parigi, il cappellaio Gibus, realizza un’idea rivoluzionaria per rendere più pratico e maneggevole il cilindro. Viene inventato il cosiddetto “cilindro elastico” o “chapeau claque” per il caratteristico rumore a scatto prodotto dalle sottilissime e ben nascoste molle d’acciaio che permettono di piegarlo come una fisarmonica.
Alla metà dell’Ottocento, il cappello ha ormai un ruolo di primaria importanza. Nessuno si mostra in società senza cappello. Accanto al cilindro, utilizzato per di più nelle occasioni ufficiali e nelle cerimonie, compare la Bombetta. Ideata nel 1850, in Inghilterra, dal cappellaio londinese John Bowler, la bombetta è caratterizzata da una calotta rotonda, dura e con una piccola tesa arricciata. Inizialmente di colore nero, prenderà successivamente anche le tonalità del grigio e del tortora. Nel 1890, nella storia dei cappelli di feltro, si registra un altro avvenimento importante. Il futuro Re Edoardo VII di Inghilterra, figlio della regina Vittoria, in cura a Bad Homburg, si fa confezionare un cappello che prende il nome di quella località. Noto ai giorni nostri anche come cappello “alla diplomatica”, l’Homburg, definito anche roulè, è un cappello ad ala arricciata ai fianchi e rollata, con cupola floscia e morbida. Nel Novecento, si accentua la funzione sociale de cappello, il suo valore simbolico. Il cappello si fa segno di distinzione e persino espressione di una diversa appartenenza politica. Mentre i mazziniani indossano cappelli morbidi, neri, a tesa larga, i socialisti portano cappello tondi, flosci e a tesa piccola. Ma il cappello resta anche accessorio di vanto ed eleganza. Indossato alla Homburg durante il freddo dell’inverno, o alla Pietroburgo, nero e foderato di castoro, sul paletot di pelliccia all’uscita da teatro. Il cilindro resta complemento insostituibile dell’eleganza maschile. Lucido, di morbida seta e con la fascia di raso opaco per le occasioni eleganti; grigio, con nastro ton-sur-ton e bottoncino, indossato con il tight. Quelli del Novecento sono anni di progresso e industrializzazione. Nel 1911 sono cinquanta gli stabilimenti attivi con più di quattromila operai. Anche le aziende tessili vivono un grande e significativo sviluppo.
MONZA, LA CITTÀ DEL CAPPELLO
La lavorazione del cappello di feltro in Lombardia, e in particolare a Monza, ha origini antiche. Gli artigiani monzesi iniziarono infatti a dedicarsi a quest’attività a partire dai primissimi anni del 1600. Nelle loro piccole botteghe artigiane, che vedevano occupate tre o quattro persone, venivano confezionati preziosi copricapo per le città ed i borghi più vicini. Non è quindi un caso che, durante tutto il 1700, Monza, venne considerata la principale produttrice di cappelli di tutta la Lombardia. Nel corso degli ultimi anni del ‘700, poi, la città forniva da sola la quasi totalità di cappelli per le armate di Napoleone e, attorno alla seconda metà dell’Ottocento, il settore conobbe un vero e proprio boom produttivo, grazie allo sviluppo dell’industrializzazione.
Oltre all’affermarsi fin dal XVI secolo dell’uso e della moda del cappello, i principali fattori che concorsero al rapido e straordinario sviluppo dell’industria cappelliera, che assunse in breve tempo il ruolo di settore propulsivo dell’intera economia monzese, furono le seguenti: la presenza di terreni economici; la minore pressione fiscale; la manodopera contadina a basso costo, peraltro già pratica e ben addestrata nella lavorazione della lana (attività praticata nella zona da tempo immemorabile), meno esigente di quella cittadina. Nella seconda metà dell’Ottocento, negli anni successivi all’unificazione del Paese, si registrarono chiari segni di sviluppo del settore.
Nonostante il lavoro fosse ancora organizzato a base prettamente artigianale ed il grado di meccanizzazione fosse ancora modesto, il numero dei cappellifici e delle maestranze impiegate, aumentò. Basti infatti pensare che, tra il 1864 e il 1876, il numero delle fabbriche di cappelli a Monza passò da 12 con 173 addetti a 20 con 696 addetti. Negli anni subito successivi, poi, si arrivò a ben 26 stabilimenti con 3.842 maestranze impiegate stabilmente.
Negli anni Ottanta dell’Ottocento, il settore conobbe poi un’ulteriore ascesa grazie alla costruzione della linea ferroviaria del San Gottardo che permise ai principali cappellifici monzesi, Cambiaghi, Valera&Ricci, Meroni e Carozzi, di importare regolarmente la lana da Francia, Inghilterra e Germania, per produrre oltre 3.000.000 di cappelli l’anno. La nostra città era così diventata il maggior centro di produzione al mondo dell’industria del cappello. Chiamata per questo motivo, la “Città del Cappello”, Monza era capace di produrre complessivamente più di 60.000 cappelli finiti al giorno, di cui almeno 40.000 nei cinque maggiori cappellifici. Successivamente, una massiccia modernizzazione e la meccanizzazione degli impianti industriali, insieme ad un’imponente aumento della produzione, conseguito attraverso unità produttive sempre più ampie, permisero alla città di diventare addirittura il centro di produzione di cappelli di lana più importante nel mondo, con un indotto che, fino all’avvento della II Guerra Mondiale, contava circa 25.000 addetti, occupati anche nelle industrie collaterali della cappelleria, quali quelle produttrici di forme di cappelli, fodere e nastri e quelle dell’industria più propriamente meccanica.
Sempre più frequentemente, infatti, i macchinari di produzioni inglese, americana e francese furono sostituiti da macchinari di produzione locale. Tra i principali produttori, si ricordano le ditte monzesi Radice e Scotti. Il cappellificio Valera&Ricci, ad esempio, aveva una sua propria officina meccanica per la produzione di macchinari. La maggior parte delle maestranze era maschile, vista la forza fisica necessaria per svolgere questo tipo di lavoro. Donne e bambini venivano invece impiegati nelle fasi accessorie della rifilatura. Se da un lato, nel corso degli ultimi Vent’anni dell’Ottocento, si assistette ad un importante sviluppo industriale e ad una profonda meccanizzazione degli impianti lavorativi, dall’altro le condizioni di lavoro degli operai non conobbero alcun miglioramento. I locali ove si svolgeva l’attività lavorativa erano saturi di umidità e di pulviscolo di lana. Lavorando sempre a contatto con il vapore bollente, i cappellai avevano le mani gonfie e cosparse di vesciche, i palmi ricoperti da spessi calli. I capi sezione, inoltre, non perdevano occasione per imporsi sugli operai con atteggiamenti aggressivi e prevaricatori. Tuttavia, i cappellai monzesi non persero mai l’abitudine di solidarizzare tra di loro. Fin dai tempi più antichi, infatti, gli artigiani erano soliti ricorrere al sistema delle collette spontanee tra compagni di mestiere a favore di colleghi ammalati e disoccupati, dando vita a diverse associazioni.
La più antica fu la società di mutuo soccorso fra lavoranti in cappelli di feltro denominata Pio Istituto De Cappellari in Monza costituita nel 1832 ad opera di quattro operai monzesi, con lo scopo di soccorrere i soci in caso di malattia, disoccupazione temporanea per mancanza di lavoro e cronicità.
Diventata nel 1881 Società dei Lavoranti in Cappelli di Feltro di Monza, questa associazione allargò il suo campo di intervento. Elargì infatti somme per i cappellai in lotta per gli aumenti salariali; istituì nel 1886 il sussidio di istruzione che consisteva nella distribuzione di libri di testo e quaderni ai figli dei soci anche deceduti; istituì nel 1892 il sussidio di vecchiaia per i soci che avessero superato il 65° anno di età e infine, dal 1897, solennizzò il 1 maggio con l’astensione dal lavoro. Nei primi anni del XX secolo, le condizioni di lavoro dei cappellai iniziarono a migliorare sensibilmente. In seguito a numerosi scioperi scoppiati per questioni salariali, un gruppo di operai diede vita all’organizzazione Unione Lavoranti Cappellai che, alla fine del ‘900 contava il 90% degli operai attivi nei cappellifici. Nel 1902, gli operai monzesi, proprio attraverso l’Unione Lavoranti Cappellai, riuscirono ad ottenere dagli industriali il primo contratto collettivo di lavoro con il quale, fermo restando il pagamento a cottimo, venne garantito al cappellaio un salario minimo orario e riconosciuto un compenso superiore al 50% per il lavoro straordinario. Successivamente, i cappellai riuscirono ad ottenere anche un regolamento comune a tutti gli stabilimenti che fissò il limite massimo di 10 ore lavorative al giorno e il riposo festivo. Fu però nel 1909 che si registrò un cambiamento epocale. Venne infatti siglato un nuovo contratto collettivo di lavoro che non solo regolò l’iscrizione dei lavoratori alla Cassa Nazionale di Previdenza ma impose altresì l’obbligo di conservare il posto di lavoro per gli operai assenti per malattia o servizio militare e quello di dare un preavviso di 15 giorni in caso di licenziamento.
L’Unione Lavoranti Cappellai aveva tra i propri scopi principali quello di migliorare i salari e i regolamenti della fabbrica e quello di difendere gli operai nel posto di lavoro. Sul modello delle associazioni operai inglesi, l’unione sindacale dei cappellai si fece altresì promotrice della costituzione di una federazione nazionale che, a sua volta, aderì alla federazione internazionale di Parigi. Anche gli industriali del cappello sentirono l’esigenza di unirsi in associazione. La più antica fu l’Unione fabbricanti cappellai monzesi che, sorta nel 1892, aveva lo scopo di limitare la concorrenza tra gli imprenditori e di tutelare le loro ragioni di credito. Nel 1987, a Milano, fu poi costituita la prima “Associazione italiana fabbricanti cappelli” che, pur avendo carattere nazionale, aveva la propria sede a Monza. La notevole espansione del movimento operaio monzese e delle organizzazioni sindacali portò infine alla nascita della Federazione tra gli industriali monzesi, la prima associazione imprenditoriale in Italia.
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